mercoledì 22 febbraio 2012

Geni e discriminazione

La paura e l'ostilità nei confronti del diverso hanno accompagnato l'umanità sin dalla notte dei tempi, basti pensare al concetto di "bàrbaros" tipico della grecità e della cultura classica, o alla "limpieza de sangre" tanto cara alla corona spagnola del quindicesimo e sedicesimo secolo, fino ad arrivare ai nostri giorni. Nel corso della storia sono esistite ed esistono tuttora diversi tipi di discriminazione: in base all'orientamento sessuale, in base all'appartenenza etnica o religiosa e in base al genere. Negli USA, che sono sempre all'avanguardia in tutto, ne è emersa una nuova forma, altrettanto subdola e vigliacca: la discriminazione su base genetica.

La vicenda di Pamela Fink, raccontata in questo articolo, è paradigmatica. La donna, infatti, sarebbe stata licenziata dopo aver rivelato ai suoi datori di lavoro l'esito di un test genetico che evidenziava la sua predisposizione al cancro al seno. Sia ben chiaro che la predisposizione ad una malattia non implica in alcun modo la certezza matematica dell'insorgere della stessa, ma soltanto una probabilità più alta di svilupparla rispetto ad un individuo non predisposto. Purtroppo pare che non si tratti di un caso isolato, visto che la relazione annuale dell'Equal Employment Opportunity Commission parla di ben 245 casi di discriminazione genetica avvenuti nel 2011, con un aumento del 20% rispetto all'anno precedente. Un trend molto poco incoraggiante, nonostante l'entrata in vigore del Genetic Information Nondiscrimination Act (GINA) del 2008 che dovrebbe appunto tutelare i lavoratori da discriminazioni di questo tipo.

La notizia mi ha fatto ricordare un corso di filosofia morale che ho seguito in quel di Trento, quando ero ancora un giovincello entusiasta che riteneva l'università un luogo di cultura, crescita e libero scambio di idee. Tale corso era incentrato sulla bioetica e in una lezione si parlò proprio di questo argomento, visto che solleva problemi di tipo etico-morale non indifferenti. In primo luogo, che fare se un giorno lo screening genetico venisse assimilato al narcotest diventando così conditio sine qua non per poter ottenere un qualsiasi posto di lavoro? Io non sono certo di voler sapere se il mio corredo genetico aumenta il rischio che possa contrarre questa o quella malattia, visto che conoscendomi potrei cadere nel tunnel senza uscita dell'ipocondria. 

In secondo luogo, come può il futuro di un individuo dipendere da una probabilità statistica che non sarà mai indice di certezza assoluta? Nulla prova che una persona con un profilo biologico X sia un lavoratore migliore o peggiore di chi possiede un profilo Y o Z. L'unica differenza sta nel fatto che, qualora insorgesse una malattia, l'azienda sarebbe costretta a sostenere diverse spese accessorie: la selezione a monte diventa, quindi, una forma di tutela per l'azienda e i suoi profitti. Poco importa se il lavoratore rimane in mezzo alla strada.

Gli scenari che si profilano all'orizzonte sono decisamente inquietanti. Quanto sta accadendo in America sembra quasi un rewind delle teorie lombrosiane, in cui la fisiognomica è stata sostituita dalla genetica, dove sono i geni a stabilire se una persona potrà avere un lavoro ed entrare a far parte della comunità o se sarà destinata ad essere un paria. In sostanza una nuova forma di classismo basata sul DNA senza possibilità di riscatto per coloro che si ritroveranno, loro malgrado, nelle classi più basse. A questo punto sorge spontanea una domanda, ancora più inquietante della premessa, ovvero che ne sarà di tutti quegli individui che saranno giudicati improduttivi in una società del genere? La futura elite vorrà accollarsi i costi per il mantenimento degli individui giudicati - dal loro punto di vista - biologicamente inferiori o ci sarà una nuova folle corsa verso l'eugenetica?

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