Questo post vaga nella mia testa da un paio di giorni. Ogni volta che provo a dare ordine ai miei pensieri, mi ritrovo a fissare il foglio bianco con sguardo assente, perchè non è facile scrivere quando ogni singola fibra del tuo corpo, ogni singola sinapsi, è satura di rabbia e impotenza. Non è possibile provare altro ripensando al G8 di Genova, alle recenti sentenze e alla totale disparità di giudizio tra imputati con e senza divisa.
Da un lato abbiamo visto attenuanti, prescrizioni e condanne a dir poco simboliche, come i cinque anni di sospensione dai pubblici uffici, poco più di una lunga vacanza, comminati ai dirigenti di pubblica sicurezza che guidarono il blitz alla scuola Diaz o gli anni di carcere - al massimo tre - inflitti ai torturatori di Bolzaneto. Abbiamo visto gente come Gianni De Gennaro, all'epoca capo della polizia, fare carriera e diventare sottosegretario.
Dall'altra abbiamo visto l'accanimento dello Stato nei confronti degli arrestati, alla richiesta di condanne esemplari per "devastazione e saccheggio", residuo della legislazione fascista, o per "compartecipazione psichica", una trovata degna di Orwell. Condanne che sono state confermate dalla Corte di Cassazione il 13 luglio di questo anno.
Al di là della cronaca, il G8 di Genova ci offre diversi spunti di riflessione. In primo luogo ci mostra come lo Stato riesca sempre a trovare il modo di proteggere i propri servitori, anche quando questi si macchiano di reati odiosi. Lo dimostra ampiamente il processo per la mattanza della Diaz in cui, tra l'altro, sono stati assolti dall'accusa di lesioni nove celerini: in parole povere, il braccio rimane impunito perchè gli agenti non indossano segni di riconoscimento, mentre la mente viene semplicemente mandata in vacanza, ma solo per evitare problemi con Amnesty International che, a suo tempo, definì questi fatti come "la più grande sospensione dei diritti democratici in una nazione occidentale dalla Seconda Guerra mondiale".
Questo ci riporta immediatamente al secondo punto. Può essere considerato "democratico" un paese in cui sono ancora in vigore leggi approvate durante un regime dittatoriale? Il codice penale italiano è, infatti, il frutto di un percorso quinquennale compiutosi tra il 1925 e il 1930, anno in cui il cosiddetto "codice Rocco" venne promulgato ufficialmente da re Vittorio Emanuele III e da Benito Mussolini. Nonostante la caduta del fascismo, la nascita della repubblica, la promulgazione di una costituzione "democratica", il codice Rocco è ancora lì, quasi intonso dopo più di ottanta anni. Inoltre, si può considerare "democratico" un paese in cui non è stato introdotto il reato di tortura? L'Italia ha firmato nel 1988 la convenzione ONU contro la Tortura eppure in ventiquattro anni non è stato fatto un solo passo per giungere ad una sua ratifica. L'introduzione del reato di tortura avrebbe impedito la prescrizione per i torturatori di Bolzaneto.
L'introduzione della cosiddetta "compartecipazione psichica" apre scenari ancora più inquietanti. Con questo cavillo, infatti, non si vanno a punire le singole responsabilità, bensì la sola presenza sul luogo ove si compie il fatto. In parole povere si punisce il diritto a manifestare, si crea l'idea che il solo scendere in piazza sia fonte di colpevolezza, aprendo così la strada alla repressione. Allo stesso modo, come giustamente riportato nella pagina FB di Femminismo A Sud, si è venuto a creare un clima "normalizzante" nei confronti della violenza poliziesca sui manifestanti. Ad ogni manifestazione siamo inondati da notizie che parlano di sedicenti scontri - anche quando in realtà si tratta di cariche a sangue freddo - corredate da immagini di manifestanti sanguinanti e con la testa rotta: un modo subdolo e sottile per far passare il messaggio che chi viene pestato in piazza dalla polizia è per forza colpevole di qualcosa.
Alla luce di queste riflessioni, e sicuramente me ne sono sfuggite altrettante, è più che ragionevole pensare che il G8 di Genova e i relativi processi siano stati un enorme banco di prova per tecniche di dittatura, tanto più se si osserva con attenzione la situazione attuale, in cui le tensioni sociali si fanno sempre più esplosive.
Da un lato abbiamo visto attenuanti, prescrizioni e condanne a dir poco simboliche, come i cinque anni di sospensione dai pubblici uffici, poco più di una lunga vacanza, comminati ai dirigenti di pubblica sicurezza che guidarono il blitz alla scuola Diaz o gli anni di carcere - al massimo tre - inflitti ai torturatori di Bolzaneto. Abbiamo visto gente come Gianni De Gennaro, all'epoca capo della polizia, fare carriera e diventare sottosegretario.
Dall'altra abbiamo visto l'accanimento dello Stato nei confronti degli arrestati, alla richiesta di condanne esemplari per "devastazione e saccheggio", residuo della legislazione fascista, o per "compartecipazione psichica", una trovata degna di Orwell. Condanne che sono state confermate dalla Corte di Cassazione il 13 luglio di questo anno.
Al di là della cronaca, il G8 di Genova ci offre diversi spunti di riflessione. In primo luogo ci mostra come lo Stato riesca sempre a trovare il modo di proteggere i propri servitori, anche quando questi si macchiano di reati odiosi. Lo dimostra ampiamente il processo per la mattanza della Diaz in cui, tra l'altro, sono stati assolti dall'accusa di lesioni nove celerini: in parole povere, il braccio rimane impunito perchè gli agenti non indossano segni di riconoscimento, mentre la mente viene semplicemente mandata in vacanza, ma solo per evitare problemi con Amnesty International che, a suo tempo, definì questi fatti come "la più grande sospensione dei diritti democratici in una nazione occidentale dalla Seconda Guerra mondiale".
Questo ci riporta immediatamente al secondo punto. Può essere considerato "democratico" un paese in cui sono ancora in vigore leggi approvate durante un regime dittatoriale? Il codice penale italiano è, infatti, il frutto di un percorso quinquennale compiutosi tra il 1925 e il 1930, anno in cui il cosiddetto "codice Rocco" venne promulgato ufficialmente da re Vittorio Emanuele III e da Benito Mussolini. Nonostante la caduta del fascismo, la nascita della repubblica, la promulgazione di una costituzione "democratica", il codice Rocco è ancora lì, quasi intonso dopo più di ottanta anni. Inoltre, si può considerare "democratico" un paese in cui non è stato introdotto il reato di tortura? L'Italia ha firmato nel 1988 la convenzione ONU contro la Tortura eppure in ventiquattro anni non è stato fatto un solo passo per giungere ad una sua ratifica. L'introduzione del reato di tortura avrebbe impedito la prescrizione per i torturatori di Bolzaneto.
L'introduzione della cosiddetta "compartecipazione psichica" apre scenari ancora più inquietanti. Con questo cavillo, infatti, non si vanno a punire le singole responsabilità, bensì la sola presenza sul luogo ove si compie il fatto. In parole povere si punisce il diritto a manifestare, si crea l'idea che il solo scendere in piazza sia fonte di colpevolezza, aprendo così la strada alla repressione. Allo stesso modo, come giustamente riportato nella pagina FB di Femminismo A Sud, si è venuto a creare un clima "normalizzante" nei confronti della violenza poliziesca sui manifestanti. Ad ogni manifestazione siamo inondati da notizie che parlano di sedicenti scontri - anche quando in realtà si tratta di cariche a sangue freddo - corredate da immagini di manifestanti sanguinanti e con la testa rotta: un modo subdolo e sottile per far passare il messaggio che chi viene pestato in piazza dalla polizia è per forza colpevole di qualcosa.
Alla luce di queste riflessioni, e sicuramente me ne sono sfuggite altrettante, è più che ragionevole pensare che il G8 di Genova e i relativi processi siano stati un enorme banco di prova per tecniche di dittatura, tanto più se si osserva con attenzione la situazione attuale, in cui le tensioni sociali si fanno sempre più esplosive.
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